Quella di Antonia Pozzi, poeta lombarda, nata a Milano nel 1912, è un’arte sottile, asciutta e gentile che si concretizza in una vera e propria poetica del desiderio, in una ricerca costante non di una forma perfetta, ma di una vita pregna e significativa che si avvicinasse il più possibile all’ideale di perfezione della vita: arrivare ad accarezzare la felicità.
Desiderio di cose leggere è infatti il titolo di una raccolta postuma che riunisce i più significativi componimenti delle raccolte dell’autrice. Il titolo è tratto proprio dalla poesia di Pozzi Desiderio di cose leggere.
(…)Desiderio di cose leggere
nel cuore che pesa
come pietra
dentro una barca –
Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’alta scogliera
di stelle –
Vita di Antonia Pozzi
Antonia Pozzi compie gli studi classici presso il Liceo Manzoni, segue lezioni private di disegno e scultura e a partire dalla fine degli anni Venti si dedica alla fotografia e a molti sport.
Al 1929 risalgono le prime prove poetiche tràdite e l’anno dopo si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo milanese in cui si laurea nel 1935 con una tesi su Flaubert.
In quegli anni viaggia molto per l’Europa e a partire dall’autunno 1937 insegna materie letterarie presso l’Istituto Schiaparelli di Milano, cosa che rappresenta per lei un tentativo di ricostruzione di sé e di emancipazione dai genitori. Pratica anche molto volontariato presso la Casa degli Sfrattati di via dei Cinquecento. Durante l’estate del 1938, oltre a tradurre parzialmente Lampioon di Manfred Hausmann, sperimenta la scrittura in prosa: intendeva progettare un romanzo ispirato alla vicenda della sua famiglia, ambientandolo in Lombardia.
Nell’autunno del 1938, la promulgazione delle leggi razziali la fa precipitare in una cupa angoscia, in quanto riguardavano da vicino molte sue persone care, lacerando quegli argini di protezione difficilmente costruiti. Il 3 dicembre dello stesso anno si dà la morte ingerendo una dose eccessiva di barbiturici, cosa che è stata negata dai genitori, che attribuirono invece la causa della morte a una polmonite per non affrontare lo scandalo di un suicidio. Anche il testamento di Antonia è stato nascosto e distrutto e le sue poesie, scritte a mano su dei quaderni, vennero manipolate dal padre per evitare probabilmente accenni o espressioni ritenuti da lui scandalistici.
Tutti gli scritti di Pozzi sono stati pubblicati postumi. L’opera più importante è la raccolta delle liriche, Parole, che comprende circa trecento poesie composte tra il 1929 e il 1938. Il corpus attraversò una peculiare vicenda editoriale: primo curatore fu nel 1939 il padre Roberto che, spinto probabilmente dal desiderio di proteggere la memoria della figlia soprattutto in relazione al rapporto con Cervi, il professore del liceo di cui Pozzi si innamorò e con cui intrattenne una relazione per anni, intervenne pesantemente sui testi con tagli e interpolazioni: questo primo volume conteneva solo 91 poesie ed ebbe circolazione ridottissima. Successivamente le lezioni originarie sono state ripristinate laddove possibile.
Le liriche sono connotate da una cifra diaristica, recano di solito la data e, talvolta, il luogo di composizione e caratterizzate da una chiara dimensione autobiografica.
La poetica del desiderio
La poesia, in questa ricerca del soddisfacimento del desiderio di cose leggere, è stata il suo mezzo di esplorazione principale, la sua voce, come dichiara lei stessa nella Preghiera alla poesia, in cui Pozzi invoca la personificazione della poesia, chiedendo di poter tornare da lei, a seguito di un momento di perdizione, per poter essere di nuovo da lei guardata.
Pozzi infatti ha scritto poesia per gran parte della durata della sua breve vita. In una lettera lasciata ai familiari spiega che le è mancato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la sua vita. Ci sono dei richiami pascoliani in questa ricerca del nido, che per la poeta assume i connotati di un porto, che la sua anima disorientata ricerca come una fa una nave dispersa.
Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata
dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata
dagli uragani – (…)
(…) io sono una nave
una nave che porta
in sé l’orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo (…)
Di lei è stato detto che fosse un’amante della montagna ed è indubbio che nelle sue composizioni tornino frequentemente paesaggi montani, ma la sua poesia è allo stesso tempo ricca di richiami marini. Le metafore legate al mare sono infatti ricorrenti, così come al sole e alle stelle, tutti elementi quotidiani quanto sempre fortemente simbolici, evocativi di sentimenti nostalgici, uno dei motivi per cui è stata spesso associata al crepuscolarismo. La parola stelle torna in particolar modo ricorrente. La loro luce illumina simbolicamente, in tutti i componimenti in cui è richiamata, l’oggetto designato a rappresentare la calma e la pace tanto agognate. Da Stelle sul mare:
(…) piccole buone stelle
che cadete
giù dalla mano
s’io – ecco – la scuota
come fa il vento di un ramo fiorito –
stelle –
grandine d’oro –
che piovete a scrosci lunghi
sopra il nudo cuore –
Mentre altre volte la stella arriva a coincidere con l’oggetto stesso del desiderio:
Lascia ch’io pianga
Perché non potrò mai avere né le stelle
Né lui
D’altro lato immagini di luce e speranza si accompagnano spesso a quelle più cupe e ombrose di altri componimenti, in cui il desiderio di leggerezza tanto agognato dalla poeta pare essere lontano dal suo soddisfacimento. Significativo che, in molti componimenti di questo tipo, ritornano spesso riferimenti al colore viola, a connotare di frequente l’immagine delle ombre.
Petali viola
mi raccoglievi in grembo
a sera:
quando batté il cancello
e fu oscura
la via del ritorno
(…) Anima, sii come la montagna:
che quando tutta la valle
è un grande lago di viola
e i tocchi delle campane vi affiorano
come bianche ninfee di suono,
lei sola, in alto, si tende
ad un muto colloquio col sole (…)
Il viola è un colore cupo quanto fulgido, energico quanto disperato e ben richiama la voce di Antonia Pozzi, il grido della sua poesia tanto speranzoso quanto angosciato.
La condizione esistenziale maggiormente esplorata è per Antonia Pozzi la solitudine, cui dedica moltissimi componimenti. Nella poesia Solitudine, essa si presenta proprio come la condizione esistenziale legata al desiderio irrealizzato, come quella brama di avvinghiare qualche cosa di vivo ma che, troppo ardente, finisce per sabotare sé stessa e tramutare l’atto in un abbraccio rivolto solo al proprio corpo magro.
Alla scoperta dell’amore e alle esperienze amorose sono dedicati infine alcuni dei componimenti più belli, in un inno alla vita ma anche alla sua fine. La morte costituisce infatti una presenza incombente, sentitaperò come il raggiungimento della pace,il pieno soddisfacimento di quel desiderio di cose leggere.
Da Secondo Amore:
Piansi bambina, per un mondo
più grande del mio cuore,
dentro il mio cuore
rinchiuso – morto (…)
(…)benedetto il soffrire, il morire
di tutti i mondi che portai nel cuore –
se dalla morte si rinasce
un giorno,
se dalla morte io rinasco
oggi – per te,
me stessa offrendo
alle tue mani – come
una corolla
di dissepolte vite.
Da Bellezza:
Ti do me stessa,
le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle – bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote (…)
Antonia Pozzi aveva soprattutto uno sguardo proiettato verso l’infinito, tanto che non è bastata una vita a contenerlo e, una volta calata la notte con le sue ombre viola, si è spinta in alto verso l’agognato cielo a ricercare la leggerezza.