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Un’amica

Ci eravamo conosciute tra i banchi di scuola e non ci eravamo separate più.

Avevo visto Gianna per la prima volta mentre mangiava un panino al prosciutto seduta accanto al termosifone della classe. Lo spezzettava a piccoli bocconi, attenta a non fare cadere per terra nemmeno una briciola bianca. Poi addentava il pezzetto e lo assaporava come se fosse l’ultimo pasto della sua vita.

“Ma come fai a mangiare il prosciutto cotto?”, le dissi. “A me solo l’odore mi fa vomitare”.

“A me mi non si dice”, mi rispose con il morso in bocca mentre cercava di spostarlo in un angolino per non farmi vedere.

Da quel giorno diventammo migliori amiche.

Eravamo così diverse, ci completavamo, dicevano quelli che ci conoscevano. Io, quella bassa della coppia, capelli neri a caschetto, frangia che mi copriva le sopracciglia, occhiali da vista tondi e neri.

Lei, con i capelli che le arrivavano al sedere, mossi e biondi, alta fin da bambina. Gambe chilometriche, la chiamavano. Quando volevo camminarle a fianco salivo sul marciapiede e gli altri mi prendevano in giro. Io volevo solo starle più vicina possibile. Parlavamo di tutto, a qualsiasi ora. Lei mi chiamava appena finiva i compiti, sempre prima di me, e mi chiedeva se mi fossero riusciti gli esercizi di matematica. Io le dicevo che ancora non avevo finito, che li dovevo riguardare e che c’era tutta la giornata ancora a disposizione. Lei mi diceva che se avevo bisogno a lei erano risultati tutti e me li avrebbe passati.

La ammiravo in qualsiasi cosa facesse. Era ordinata, precisa, si vestiva sempre come una principessa. Sapeva di cioccolato bianco e Smarties, quelli che sua madre mi offriva quando andavo a trovarla a casa.

La sua camera era un tripudio di rosa e merletti, la mia era piena di modellini di dinosauri e poster di gruppi anni ’70. Mia madre non voleva che venisse qualcuno a casa nostra al pomeriggio perché diceva che facevamo confusione, così dopo i compiti andavo da lei a piedi e guardavamo la tv. Ci sdraiavamo su un tappeto a forma di cuore rosso e giallo e ci raccontavamo qualsiasi storia ci venisse in mente. Io inventavo tante cose, la sua vita era sempre così interessante e colorata. Volevo assomigliarle anche solo un po’, avere la sua stessa famiglia, i suoi stessi trucchi, le sue stesse magliette pelose. Per qualche ora, solo per qualche ora, rubavo da quella cameretta la sensazione di essere come lei. Perfetta e imbattibile.

Poi arrivò un martedì di novembre che ci cambiò entrambe, per sempre.

Mi aveva invitata a casa sua, dopo i compiti. Pioveva e le nuvole coprivano anche le case rosse e verdi dei miei vicini. Ero uscita mentre i miei genitori erano via, avevo preso un ombrello ed ero arrivata a casa sua qualche minuto più tardi.

“Asciugati, sei tutta bagnata!”, mi gridò sua madre mentre salivo le scale con le scarpe zuppe d’acqua e sporche di fango. Mi diede una felpa pulita, un paio di ciabatte e mi asciugò i capelli sotto il getto rovente del phon. Poi mi avvolse in un plaid a righe e mi diede il via libera per passare del tempo con la figlia. Iniziammo a guardare la tv come ogni pomeriggio: Law & Order, poi le serie tv ambientate nei college americani e a volte anche i programmi di cucina. Scrivevamo su un quadernetto le ricette dei dolci che poi proponevamo ai nostri genitori, con la speranza che ci addolcissero i pomeriggi di studio e le colazioni prima di scuola. Quel pomeriggio sentimmo qualcuno bussare alla porta della stanzetta.

Era la mamma di Gianna e aveva un vassoio in mano.

“Li ho fatti per voi”, e scoprì il vassoio coperto da un fazzoletto di mille colori. Muffin al cioccolato e fragole, con dentro marmellata di lamponi. Gianna corse ad abbracciare sua madre, io rimasi seduta sul tappeto ad ammirare quello spettacolo. Dopo la pioggia non potevo chiedere di meglio.

“Ve li lascio in cucina, così fate merenda. E mi raccomando: niente briciole!”

“E tu dove vai mamma?”

“Devo fare una visita, quindi dovete rimanere per un po’ da sole a casa. Confido in voi.”

Ci guardò con uno sguardo di fiducia e di complicità, diverso da quello che aveva mia madre. Mi sentii nel luogo più rassicurante mai frequentato. Volevo rimanere lì per sempre, con Gianna, a mangiare muffin al cioccolato, sdraiate sul tappeto rosa a forma di cuore.

La madre di Gianna andò via quasi subito e noi ci sentimmo le proprietarie della casa. Iniziammo a ballare con la musica di MTV a volume altissimo, girando all’impazzata attorno al tavolo della stanza da pranzo. Mi sentivo sulle nuvole e, per la prima volta, stavo condividendo la felicità con qualcuno. Era una sensazione bellissima. Poi, senza accorgermene, inciampai sulla gamba del tavolo. Sentii una fitta lancinante al ginocchio. Gianna continuava a cantare dondolando i capelli biondi a destra e a sinistra e rideva guardando me contorcermi dal dolore. In quel momento pensai che non sarei mai diventata come lei. Lei era perfetta, in una casa senza difetti, sicura e senza paura. Iniziai a provare tristezza, e smisi di ballare. Rimasi ferma davanti a lei senza forze. Poi sentii qualcuno urlare per le scale sul pianerottolo.

Gianna staccò la musica.

“Sono venuti a sgridarci, di sicuro. Non dovevamo mettere la musica così alta. Ora lo diranno a tua madre e io non potrò più venire a casa tua.”

“Stai tranquilla, mamma fa tanto la severa ma poi non mi sgrida mai.”


Ci avvicinammo alla porta di ingresso e anche senza musica quelle persone continuavano a urlare. Qualcuno parlava al telefono, altri dicevano che la polizia stava per arrivare.

Aprimmo la porta insieme.

Trovammo due persone davanti l’uscio del vicino di casa di Gianna e una donna per terra, inginocchiata, che piangeva. Ricordo di aver riconosciuto mia mamma in quel viso, poi misi a fuoco e vidi una sconosciuta. La donna alzò la testa e si accorse di Gianna. Iniziò a dirle qualcosa, biascicando parole senza senso. Entra dentro, chiudetevi a chiave, non guardare là.

Gianna non capì, o fece finta di non capire. Mi prese la mano e si avvicinò agli uomini davanti la porta che parlavano al cellulare. Forse pensava che avremmo dovuto farci forza entrambe, e il calore delle mani dell’altra era necessario. Forse pensava che fossi più forte di lei, in quel momento. E allora ci avvicinammo e nessuno ci impedì di vedere quello che c’era lì dentro. Nessuno si era accorto che due bambine di dodici anni stavano per vedere quello che non avrebbero mai dovuto vedere. C’era un uomo seduto su una poltrona, la testa piegata in modo innaturale, e il bracciolo era tappezzato di macchie rosse. Aveva gli occhi spalancati e ci fissava. Signor Rino, Gianna lo chiamò per nome e da quel momento in poi non ricordai più niente.

Ci ritrovammo a casa, la mamma di Gianna davanti e noi sedute sul divano del salotto. Ci stringeva le mani e ci diceva di non preoccuparci, che avremmo dimenticato tutto, che quell’immagine sarebbe andata via per sempre, come la nebbia di primo mattino. Poi ci aveva preparato un thè e aveva chiamato mia madre che era venuta a prenderci subito.

“Cosa hai visto, Luna? Cosa hai visto? Per favore dimmelo.” Sembrava che se glielo avessi detto sarebbe stata meglio.

“Il vicino di casa di Gianna, con un buco in testa.”

Non riuscii a mangiare per tre giorni e l’unico sollievo era parlare con Gianna. Lei mi faceva sentire meno sola. Solo lei riusciva a capire quello che ci era successo e che non passava più. Non era una nebbia mattutina, era una patina di polvere.


Parlavamo per ore. Gianna era cambiata. Aveva meno energia, lo vedevo. Ma quello che non riusciva a fare lo facevo io. La aiutavo a concentrarsi nei compiti, le portavo da casa pacchi di caramelle e cioccolati, le regalavo libri, bracciali e t-shirt. Quando entravo in casa sua non provavo più quella sensazione di invidia e perfezione. Sentivo un odore diverso. Era un odore di chiuso, di caffè bruciato, di muschio. Ma era l’odore di un abbraccio, di una vecchia amicizia, di un nuovo periodo. Lo avremmo affrontato insieme.

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Sara Noto Millefiori

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